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Cronache semiserie dall’Everest Base Camp

#SALEWAFACES

Quando abbiamo deciso di arrivare al Campo Base Everest ci sembrava un’avventura unica, di quelle che puoi raccontare ai tuoi amici per fargli sgranare gli occhi e, da vecchia, ai tuoi nipotini convinti di voler fare gli astronauti.
Voglio dire, è l’Everest! La mecca dei sognatori, il tetto del mondo, il viaggio alla ventura per eccellenza. Persino il nome è evocativo: Everest, avventura, la sentite l’assonanza?

Inizialmente il viaggio era stato concepito in solitaria, ma Federica, la mia compagna, si era aggiunta quasi subito. Si era tramutata in una storia di amicizia, di condivisione, di supporto sincero. Tutto progettato e pianificato da noi, senza aggiungersi ad altri gruppo o coinvolgendo agenzie.
Partire o non partire più? Di una cosa ero assolutamente convinta: che lo stato mentale fosse più importante di quello fisico. Non volevo sentirmi timorosa ed impaurita. Eppure un po’ lo ero: un conto sarebbe stato sapere fin dall’inizio che mi sarei ritrovata da sola, ma ora venivo da tre mesi in cui tutto era stato programmato e pensato, a livello sia economico sia emotivo, per due persone, purtroppo Federica non era piu' potuta partire. Ma alla fine ho deciso: parto lo stesso, vivo questa avventura in solitaria.

25 -26 dicembre

È il momento: alle spalle quella mappa con la spilletta infilzata sul Nepal, di fronte, chissà?
Non sono arrivata, nemmeno sono ancora partita, eppure che figata è stata finora? Un viaggio dentro un altro viaggio, come delle matrioske.
E quindi? Qual è il verdetto finale? Siamo pronti.
Sono pronta.
Verso il Nepal, verso l’Himalaya, verso l’incognito.

In volo da Istanbul, lato finestrino, posti scelti con cura insieme a Federica. Dove avrebbe dovuto esserci lei c’è un ragazzo nepalese, un computer engineer che vive negli States. Non ricordo il nome ma è una piacevolissima compagnia, chiacchieriamo quasi per tutto il tempo. Cleveland (lo chiamerò con il nome del posto in cui vive) è originario di Pokhara, una zona del centro Nepal famosa per il suo lago e le splendide vedute sull’Annapurna. Per arrivare al suo villaggio, partendo da Chicago, impiegherà tre giorni. Verso le 10.00 del mattino iniziamo a vedere l’Himalaya: sembra infinito, oltrepassa le nubi. Taglia l’orizzonte con i suoi profili aguzzi, come quello del Machhapuchhre, soprannominato “Fishtail” per la forma a “v”. Le cime brillano candide sotto il cielo sgombro.
Ecco che inizia la discesa verso Kathmandu. Sopra, si staglia quella che a prima vista sembra una nuvola nera: una striscia densa e compatta di smog, racchiusa all’interno della valle, intrappolata tra le pareti che contornano la città. Un enorme spirito maligno, come quelli che le bandiere di preghiera tentano di scacciare sventolando sulle terrazze o sui tetti delle case. Non basterebbero tutte quelle della capitale per eliminarlo.

L’aeroporto è piccolo ed essenziale, le formalità da sbrigare lunghe e confusionarie. Lo zaino è gettato in mezzo ad un mucchio di altri bagagli. Le mie abilità di contrattazione, come sempre, sono scarsissime e il tassista non cede di una virgola sul prezzo.
Il primo impatto con il caos cittadino è annichilente; polvere, disordine, autobus di chissà quanti anni fa con stelline adesive sui finestrini. Non c’è un solo semaforo. Un ragazzo porta un enorme sacco sulle spalle, passando davanti a negozi con insegne incomprensibili.

Arrivo a Thamel, il quartiere dei backpackers e dei negozi di trekking, l’area “bella” della città, con vie congestionate e bandierine illuminate dal riflesso dei teli verdi dei lavori in corso. Ho appuntamento col proprietario dell’agenzia che mi ha procurato il portatore. Chi è un portatore? Una persona in grado di portare il tuo zaino. Sono solo 10 kg, ma con altitudine e sentieri pietrosi sembrano molti di più. In realtà vorrei provare a fare da me, ma ho comunque preferito assumerlo come sicurezza in caso di mal di montagna, perdita di orientamento o qualsiasi altro problema. Moltissimi turisti comprano pacchetti all inclusive, che organizzano itinerari dall’atterraggio a Kathmandu alla partenza, fornendo anche tour cittadini di rientro dal trekking. A me piace viaggiare da sola e conservare la mia autonomia, per questo ho specificato all’agenzia che voglio avere la libertà di decidere logistica, tempi, prenotazioni aeree interne, ecc.

È ancora presto e per ingannare il tempo mi loggo sulla sezione Hangout di Coachsurfing, dove conosco Tashi, un ragazzo locale. Ci diamo appuntamento sulla bella terrazza di un bar, tra lanterne e gatti che si aggirano tra i cuscini.
“Ti va di andare a vedere lo stupa sulla collina? Ho la moto ma tranquilla, guido bene!”. Lo stupa è quello di Shwayambhunath, un cupolone dorato. Gli occhi del Buddha dominano la città da un’altura.
Oggi è un giorno speciale perché c’è stata un’eclissi solare e i fedeli sono numerosi. Per i nepalesi questo è semplicemente “il tempio delle scimmie”. Resto sorpresa nello scoprire che è un luogo di culto sia induista sia buddista: i monumenti sono l’unione delle due religioni e dei loro simboli, espressioni diverse che celebrano lo stesso concetto. Tashi è una fantastica guida e mi spiega moltissime cose interessanti. “Non devi ringraziarmi, averti conosciuta mi dà l’occasione di raccontarti la mia cultura, di farti stare bene e migliorare il mio karma”. Vengo a sapere che la piccola scalinata appena sotto la cupola rappresenta il Nirvana; chi arriverà in cima sarà illuminato. Al momento è percorsa solo dalle scimmie, che vi si arrampicano in maniera poco rispettosa. Ai comuni mortali, invece, l’arduo compito di aspettare 108 vite, come i pallini del rosario buddista, prima di reincarnarsi in un altro essere umano.
Intorno a noi le bandierine sventolano, i mantra sono cantati e la luce del tramonto si riflette sulle lamine dorate. Non era nemmeno nella mia top list delle cose da vedere, eppure resto incantata da questo posto: è magico, impossibile non percepirne l’energia. Sembra davvero che il vento abbia diffuso gli spiriti benevoli. Una nuvola di fumo nero si alza da un fuoco dove vengono bruciate le bandiere di preghiera cadute spontaneamente, che non vanno mai semplicemente buttate. Ogni gesto ha un significato, ogni cosa trova il proprio posto. Come possiamo giudicare senza conoscere?
Il panorama abbraccia tutta la capitale: davanti la città, dietro il tempio. Sembrano due mondi differenti, in realtà non potrebbero essere più simili: qui il rumore dei clacson è sostituito da quello delle risse dei cani randagi, la polvere sollevata dalle ruote delle macchine, da quella sparsa dai fuochi accesi per riscaldarsi negli angoli più disparati.

La piramide di Monjo
27 dicembre, giorno 1 del trekking

Km percorsi: 13
Ore di cammino: 4.30
Altitudine massima: 2.835 m
Dislivello positivo: 390 m
Dislivello negativo: 420 m

Il punto di partenza del trekking è Lukla, raggiungibile in circa cinque giorni di cammino o in aereo. L’aeroporto è sprangato con un catenaccio e pare che io sia l’unico essere vivente in circolazione. I primi voli sul display sono segnati con destinazione “mountains”. Montagne.
A poco a poco i turisti iniziano ad arrivare e conosco Daniele, torinese che si aggregherà a me, e Marco, milanese.
Lukla è stato classificato come uno degli aeroporti più pericolosi del mondo, in cui atterrano solo dei minuscoli aerei da sedici posti, i cui sedili contengono a malapena i sederoni dei passeggeri inguainati in pantaloni pesanti. Se il tempo è bello la vista sulle montagne è magnifica, soprattutto al mattino presto, quando potete ammirare l’alba. Meglio prendere il primo volo disponibile, in modo da ripiegare sui successivi in caso di problemi. Anche l’atterraggio è particolare: la pista, cortissima, è praticamente in salita!

La vista da Lukla è già molto bella e il villaggio sembra una metropoli, coi numerosi negozi e ristoranti. Le vie sono piene di quelli che credo essere yak, ma in realtà sono dzo, degli incroci. I veri e propri yak vivono a 3.000 m, da Namche Bazar in su.
La prima tappa è Phakding, pronunciato “Fakding”. Il primo dei numerosi dal bhat (piatto tipico a base di riso, zuppa di lenticchie e verdure al curry) me lo godo su una panca sotto il sole, le ginocchia un po’ doloranti per la discesa e carovane di asini con campanelli al collo che passano di fianco. In teoria l’itinerario prevede qui la fermata per la notte, ma scelgo di procedere fino a Monjo.

Inizia il dramma: decido di dare lo zaino al portatore che però comincia a lamentarsi, dicendo di essere una guida e non un portatore.
È abbastanza scioccante, per noi occidentali, l’impatto con il mondo dei portatori. Si differenziano in due tipologie: quelli che trasportano gli zaini dei turisti e quelli che trasportano altre merci. All’interno di una sacca o di una cesta di vimini intrecciata, questi uomini spostano anche 100 e più kg sulle vette himalayane, in estate e in inverno, in infradito o con normali scarpe da tennis, con il fresco o con il gelo. Intorno alle sacche e alle ceste vengono fatte passare delle corde, legate ad una banda poggiata sulla fronte per scaricare il peso. Alcuni utilizzano un bastone fatto a “t” su cui si siedono ogni tanto, tutti vanno poco più lenti di me, che ho uno zainetto da 4 kg.
I volti di questi nepalesi sono di età indefinibile: 40 anni, 50? Non si riesce a capire.

Un villaggio dopo l’altro, un passetto dopo l’altro, eccomi a Monjo.
Giornata di prime volte e di impatti: volente o nolente, arriva il momento di affrontare il grande freddo.
C’è un bel senso di comunità nel ritrovarsi intorno al fuoco con gli altri escursionisti: qualcuno legge, qualcuno ciondola, tutti abbiamo più o meno gli stessi pensieri. Ridiamo tutti perché in fondo è vero, ma è anche vero che, per quanto paradossale sia la situazione, siamo felici.

A 2.835 m, nel primo sacco a pelo della mia vita e infagottata in bende di pile, dormo uno dei sonni migliori di sempre.

Nella tana del Bianconiglio
28 dicembre, giorno 2 del trekking

Km percorsi: 5
Ore di cammino: 3
Altitudine massima: 3.440 m
Dislivello positivo: 650 m
Dislivello negativo: 90 m

Sorprendentemente, i gerani alla finestra della mia camera sono veri, e mi accingo a iniziare la giornata con un nuovo portatore: Mani.
Mani è gentilissimo. Vive in un villaggio a due giorni di cammino da Lukla. È arrivato al Campo Base 25 volte e porta al massimo 30 kg. Per lui è un lavoretto per arrotondare e pagarsi il college. “Ma i tuoi non sono preoccupati quando sali e scendi?”. Mi guarda come se fossi pazza.

Il paesaggio di ieri, escluse le cime in lontananza, non era molto diverso da quello delle nostre montagne in Italia, con colline ricoperte di pini e conifere.
Oggi invece sono proiettata in una cartolina, è l’Himalaya come me lo sono sempre immaginato.
Attraversare il cancello del Parco Nazionale di Sagarmatha (nome nepalese dell’Everest) e i suoi muri mani (rocce con incisi i mantra) è come attraversare un portale per entrare in un mondo parallelo, dove superuomini camminano su sentieri scoscesi, in cui i mezzi più veloci sono le tue gambe dove mulattiere ricoperte di cacca di asini e yak sono le nostre provinciali, e i ponti tibetani che passano sui fiumi glaciali le autostrade. Sciarpe rituali e bandierine svolazzano intorno all’acciaio mentre si passa da una sponda all’altra, con le gelide acque del Dudh Kosi che si intravedono tra le fessure sotto i piedi. Sembra di essere in viaggio da giorni, ho perso la cognizione del tempo. Il traffico di Kathmandu è lontano anni luce, forse nemmeno è mai esistito. È strano come ci si riesca ad abituare in fretta al nuovo contesto e alla nuova ruotine: laptop? Macchine? Cosa sono? Sveglia alle 7.00, sacco a pelo riposto, camminata, la sera ritrovarsi più o meno sempre con le stesse facce intorno alla stufa e alle 20.00 via a nanna. Se siete fortunati e riuscite a chiudere occhio, considerati tutto il tè ingerito e l’altitudine. Si impara ad essere pazienti, a sentire ogni secondo scandito dalle lancette dell’orologio. Si entra in connessione con il proprio corpo, lo si ascolta, lo si conosce, in un certo qual modo ce ne si prende cura. Poco prima della ripida salita per Namche Bazar c’è un incredibile doppio ponte e un piccolo viewpoint nascosto. È la prima vista dell’Everest: lontano lontano, più piccolo del Lhotse per un effetto ottico. Continuiamo ad avanzare sul terreno a tratti ghiacciato. Sono felicissima di aver lasciato il mio zaino a Mani, rischierei di sbilanciarmi e cadere. Inizialmente mi sentivo un po’ in colpa per aver ceduto il malloppo, come se non portarmi un peso desse meno valore a questo cammino; in realtà i rimorsi sono messi a tacere rapidamente: non devo dimostrare niente a nessuno, e anche senza 10 kg sulle spalle ci sono comunque altre difficoltà. Ad esempio, il caldo: con il bel tempo stiamo arrivando a quasi 17°. Alla faccia dell’”Almeno non suderai”!

La cosa curiosa del googlare le mete delle vacanze è che si rischia di averne una percezione sbagliata. I luoghi non sono solo fisici, dipendono dal contesto, dallo stato d’animo in cui ci arriviamo. Dalle foto su internet Namche Bazar sembrava un orribile agglomerato di casermoni, un villaggione turistico con ben 60 hotel. I turisti non sono tanti in questo periodo, ma se immagino tutti gli escursionisti che riempiranno i rifugi in alta stagione mi dico che preferisco di gran lunga il freddo notturno, e quello giornaliero dei giorni a venire, rispetto al marasma di gente. C’è veramente di tutto, vedo persino alcune famiglie con bambini di 8 anni.
In realtà Namche è un posto adorabile, con le donne che lavano i panni nel fiume all’ingresso del villaggio e le grandi ruote di preghiera vicino agli scalini ricoperti di neve.

La passeggiata fino al belvedere cittadino mi vede salire cautamente i gradini. Una volta arrivati in cima a parte me e Daniele non c’è nessuno. È la prima vista su Ama Dablam, Lhotse ed Everest insieme.
Wow.
L’Ama Dablam è meraviglioso, con la sua forma leggermente incurvata. Se chiudo gli occhi e sto zitta, cosa rarissima, sento solo il rumore dei campanacci degli animali e dell’acqua che scorre.

L’arrivo dei Nazgul
29 dicembre, giorno 3 del trekking

Km percorsi: unknown
Ore di cammino: 2.30
Altitudine massima: 3.880 m
Dislivello positivo: unknown
Dislivello negativo: unknown

Ieri sera, nel pienone della sala comune (ben 15 persone tra trekkers, guide e portatori), c’è stato un rapidissimo cambio di rotta. Siamo tutti di buon umore finché non entra una famiglia di canadesi che sta scendendo verso Lukla. Orribili storie di persone vittime di AMS (acute mountain sickness) prendono vita intorno a noi, ignari e spensierati avventori.

“So many helicopters! So many!”

Il programma del giorno prevede una gita di acclimatamento e pernottamento sempre a Namche: si sale di quota per poi scendere di nuovo, in modo da abituare il fisico all’altitudine. Mani mi accompagna, anche se lascio lo zaino. Ripasso davanti al gompa (monastero locale), sempre sotto un sole splendente e un cielo tersissimo. Non mi era mai capitato di non vedere nemmeno una nuvoletta per tre giorni di fila.
In salita basta pochissimo per sentire l’affaticamento; tempo dieci gradini e devo fermarmi per riprendere fiato. Devo ammettere che sono molto stupita dalla mia reazione fisica: il mio corpo, a parte le ginocchia il primo giorno e un po’ di mal di testa da cervicale per gli occhi fissi sul sentiero, sta reagendo e reagirà bene. Non mi sento mai come se dovessi sputare un polmone. Credo che i mesi di allenamento precedenti alla partenza siano stati utilissimi, senza probabilmente sarei ben più in difficoltà. A volte scopriamo cose di noi stessi insospettabili.

Lungo la strada conosco Yael e David, australiani di adozione, con cui stringerò una bella amicizia. In viaggio spesso si incontrano persone con le quali ci si sente molto più in sintonia rispetto a quelle nella vita di tutti i giorni, vi è mai capitato? Loro sono una coppia super, che si sprona a vicenda a fare cose fuori dalla comfort zone. Proseguiamo per un pezzo insieme e ci accordiamo per dormire nello stesso lodge due giorni dopo, il loro itinerario è leggermente diverso.

La porta sull’Ama Dablam
30 dicembre, giorno 4 del trekking

Km percorsi: 10.5
Ore di cammino: 6
Altitudine massima: 3.820 m
Dislivello positivo: 740 m
Dislivello negativo: 430 m

La prima metà del sentiero verso Tengboche è davvero “almost flat”. Sono rallentata da una mandria di yak che mi precede bloccando la strada ed evitando agilmente gli ostacoli sul percorso, come una padella su cui bruciano erbe rituali.
Una curva, una svolta e si apre la visuale perfetta: chorten, montagne, cielo blu e pastori. Mani mi indica una salita a zig zag, dovremo farla tutta per arrivare al villaggio. Prima c’è ovviamente una discesa innevata.

Incantevole, meravigliosa Tengboche, il premio arroccato sul crinale. Una cornice verso i monti circostanti, immacolata da qualsiasi angolo la si guardi.
Il gompa del paese è gelido e i piedi senza scarponi implorano pietà, gli occhi abituati al bianco della neve ricominciano a vedere un caleidoscopio di colori.
Non è permesso scattare foto all’interno, quindi proverò a descrivervelo: rossi, blu, verdi, ovunque è un’esplosione di tessuti e intagli. Siamo avvolti da una freddissima coperta patchwork.
Tre grossi tamburi stanno alle estremità delle panche, su cui sono poggiate pesanti tonache rosso scuro piegate con cura. Sono di lana. Dal soffitto pendono stendardi e sulla parete centrale troneggia un grande Buddha dorato circondato da altre figure e candele di burro di yak.
Mi siedo per terra pensando a quali vite devono avere gli abitanti di quel monastero, uomini invisibili che non possiamo osservare. In uno spazio così piccolo, separati solo da quei pilastri di legno, eppure così diversi.

La discesa verso Deboche, dove dormiremo, è un’unica lastra di ghiaccio che mi costringe ad indossare i ramponcini per riuscire ad arrivare in fondo prima del disgelo primaverile.

La vallata è in ombra e nel lodge non c’è nessuno, sono stanca, ho mal di pancia, sono di cattivo umore. In questi casi, due facce amichevoli come quelle che ho intorno fanno davvero la differenza. Un pezzo di pavimento è gelato, l’acqua nel rubinetto pure.

Presentimenti
31 dicembre, giorno 5 del trekking

Km percorsi: 10
Ore di cammino: 5
Altitudine massima: 4.410 m
Dislivello positivo: 660 m
Dislivello negativo: 70 m

Come direbbe Mani: jam, via! Monastero femminile, altro ponte, altra salita, altro chorten, altri yak. Il paesaggio è simile ma non monotono.
Sopra i 4000 m il paesaggio cambia radicalmente e gli alberi spariscono. Pare il set del Signore degli Anelli: spazi aperti punteggiati da grandi rocce ed enormi montagne sullo sfondo, con minuscoli elicotteri che ogni tanto volteggiano davanti. Un ragazzino rincorre uno yak carico di barili vuoti, prendendolo a sassate e facendo roteare una corda.
L’Ama Dablam è sempre più vicino e siamo proprio dietro al Campo Base dell’Island Peak; al candore della neve si somma il candore dei fianchi dei monti.

Namche Bazar era strutturata su terrazzamenti, Dingboche invece si sviluppa su una superficie molto più ampia e pianeggiante. Il paese è quasi deserto. È l’ultimo dell’anno, ma qualcosa mi dice che non ci sarà un festone in piazza. Vado nel lodge degli australiani e dopo qualche ora gioiamo dei piccoli piaceri della vita, come la stufa accesa. Gli Hobos: eccoci qui, quattro senzatetto intorno alla stufa, che cercano di riscaldarsi le mani. -15 ° fuori, annuncia Mani. Sì è lavato calzini e pantaloni che se ne stanno rigidi come stoccafissi davanti al fuoco, fumando mentre si scongelano. Come sempre, lui è in infradito.
Nonostante siano consigliate due notti di acclimatamento a Dingboche decidiamo di seguire il suggerimento dei locali e farne solo una: per i prossimi giorni è prevista una tempesta di neve e rischiamo di rimanere bloccati prima del Base Camp. Questo viaggio mi ha aiutata a scoprire cose di me che ignoravo, forze e debolezze. Pensavo di conoscermi: come fai a non conoscerti a 31 anni suonati? Eppure è così. L’Everest, anzi, nemmeno l’Everest: la montagna, il cammino, le difficoltà che ho voluto superare mi hanno aiutata ad andare a fondo, risalendo.
Chi sono? Cosa voglio? Non lo so ancora bene, ma sento che sto per scoprirlo. La risposta è proprio lì, più lontana del Base Camp, più vicina della vetta. Tra qualche altro centinaio di km, sempre da percorrere a piedi con cerotti, calze di lana e scarponi viola.

Formiche su Plutone
1 gennaio, giorno 6 del trekking

Km percorsi: 8
Ore di cammino: 4
Altitudine massima: 4.940 m
Dislivello positivo: 610 m
Dislivello negativo: 20 m

Un’enorme cascata di sassi bianchi, intervallati da acqua gelata, su cui scendere e poi risalire. Una vista meravigliosa che, riguardata in foto, appare invece abbastanza miserabile. L’attraverso per iniziare il cammino verso Lobuche, che si trova dall’altra parte del passo, dopo i monumenti ai caduti.
Come faccio a descrivere i luoghi stupendi in cui ho camminato? Non riuscirei a rendere l’idea. “You have seen nothing yet”, mi dicevano i turisti che rientravano a Lukla, e avevano ragione. Sono terre desolate, i cui colori sono bianco, nero, grigio. Davanti agli occhi si aprono vallate senza vita ma bellissime, contornate da profili aguzzi che si stagliano sullo sfondo. A volte l’acqua scorre insinuandosi sotto le rocce, altre è uno strato di ghiaccio sopra. Ogni tanto si intravede il verdastro dei muschi.
E poi fa freddo. Davvero tanto freddo, la mancanza di sensibilità a mani e piedi diventa costante, ma non per questo meno spiacevole. Faccio alcuni esercizi per riattivare la circolazione alle mani e sento così male che quasi piango. Sono piccolissima rispetto a quello che mi circonda, avanzo tra meraviglia e stanchezza in un mondo senza confini. Le salite diventano sempre più faticose, il fiato sempre più corto.
Per questa immensa terra di nessuno, non sei nessuno.

A 5000 m anche il gesto più insospettabile costa fatica, nulla è scontato: ti rigiri nel sacco a pelo e hai il fiatone. Sporgi la testa, incameri più ossigeno e al tempo stesso rabbrividisci. Andare in bagno è come correre i 100 m, quando ti alzi ingolli grosse sorsate d’aria. Dormi poco e male, a volte hai incubi, alla fine arrivi a desiderare che la sveglia suoni presto. La prima cosa che fai al mattino è indossare scarpe, giacca e guanti. Da ieri notte metto lenti a contatto, salviette e cellulare al mio fianco: i primi rischiano di congelarsi, l’ultimo è già andato in tilt per qualche minuto a Namche Bazar.
Non hai un attimo di tregua: quando cammini fatichi, quando ti fermi a pranzo mangi tremando, quando arrivi nei rifugi devi attendere che accendano la stufa, quando vai a dormire anche se sei sfinito non riesci a riposare. Una tortura? In realtà è una sensazione stranissima: è dura, ma è fantastico. Un paio di volte non ne potevo più e non vedevo l’ora che finisse, ma per il resto avrei voluto non arrivare mai a Lukla. Ora che sono tornata e mi sono ritemprata, ripartirei domani stesso. Mi sono chiesta, quando divoravo decine di filmati sull’alpinismo, come potessero quelle persone mettersi spontaneamente in certe situazioni. Sembra una follia, eppure c’è un fascino che ora riesco a comprendere.

Dilatazione temporale gravitazionale
2 gennaio, giorno 7 del trekking

Km percorsi: 9
Ore di cammino: 7
Altitudine massima: 5.364 m
Dislivello positivo: 420 m
Dislivello negativo: 10 m

Yael è stata male tutta la notte, colpita nuovamente dal mal di montagna. La poveretta ha vomito, mal di testa, persino allucinazioni quando ci rimettiamo in marcia. Dopo la piana ci aspetta la morena, un saliscendi pietroso con vista sul Kumbu Glacier e il Kumbu Icefall. Onde di ghiaccio si levano alla nostra destra come vele congelate e ricoperte di striature nere. I pastori continuano imperterriti a condurre gli yak anche su questi sentieri. È il giorno più duro in assoluto tra altitudine, stanchezza e freddo. -22° fuori, -8° in camera la sera.

25: il numero di abitanti di Gorak Shep, l’ultimo baluardo di civiltà a 5.164 m. A breve 24, quando il gestore del nostro ostello se ne andrà per qualche mese. Il rifugio è semi vuoto ma quasi a volersi prendere gioco di noi ci danno delle camere al secondo piano. Due rampe di scale.
Siamo veramente, veramente stanchi e Yael non sta migliorando. Ma Roshan, la sua guida, suggerisce di provare, domani secondo lui sarebbe ancora peggio per via del maltempo.

Ho paura anche io, Yael. Paura di essere arrivata fin qui e non farcela, di non avere abbastanza resistenza o forza di volontà, di non stare bene. Per tre secondi, tre di numero, mi sento terrorizzata. Non voglio andarci. Se finisse male?

Quando ripartiamo nevischia. Un fantastico, meraviglioso pezzo pianeggiante, e poi di nuovo la morena. Colline di pietre a sinistra, dirupi di pietre a destra. Nessuno va in là, ma qualcuno torna indietro.
Quattro ore in tutto, annuncia Roshan. Mi fermo per bere e scoppio inaspettatamente a piangere, in preda ad una crisi di nervi. In lontananza non si vede nulla, sono stremata, ho freddo. Minuscoli fiocchi di neve mi volteggiano indifferenti intorno al viso, ma gli incoraggiamenti degli amici sono un toccasana.

Un’unica tenda gialla, non è stagione di ascesa. Qualcuno mi ha detto in seguito che erano atleti North Face. Sui sassi prima della discesa ci sono delle scritte; una dice “You just have one life. Try to enjoy it”. E’ proprio lì sotto, manca pochissimo! Il sentiero si frammenta, interrotto da pezzi in cui bisogna saltare da una roccia all’altra, sperando di non scivolare in una delle fessure.
Eccolo qua, quello per cui abbiamo camminato sette giorni: un masso con sopra la scritta di una bomboletta spray, circondato da bandierine, con dietro le creste dell’Icefall. Mi sono immaginata decine di volte questo momento, e in tutte scoppiavo in un incontenibile pianto di gioia. Come è andata in realtà? Ero felice, sì. Ho un po’ pianto, sì. Ma mi sono resa veramente conto di una cosa: sapete quando dicono che l’importante non è la meta, ma il viaggio? Ho esattamente sentito quello. Così come era successo ancora prima di mettere piede sull’aereo per Kathmandu, ma molto più forte.
Siamo arrivati! Siamo così stanchi che non facciamo nemmeno tante foto, ma siamo arrivati! Bravi tutti: eccezionale Yael, con la sua volontà incrollabile. In formissima Daniele, che mentre noi procedevamo a passo di lumaca si è fatto pure il Kala Patthar.
Questo desolato pezzetto di Nepal da cui non si vede nemmeno la cima dell’Everest, che oggi è coperto dalle nubi, è quello per cui abbiamo versato sudore e lacrime.

Certezze in frantumi
3 gennaio, giorno 8 del trekking

Km percorsi: 18
Ore di cammino: 9
Dislivello positivo: 40 m
Dislivello negativo: 1.250 m

Quello che mi aspettavo viene di nuovo smentito e invece della splendida notte di sonno che immaginavo non riesco a chiudere occhio, risvegliandomi con un tremendo mal di testa, sempre da cervicale. Stamattina avrei voluto provare ad arrivare sul Kala Patthar, ma il tempo è pessimo. Yael sta sempre peggio e Roshan si offre di portarla in spalla. A 5.100 m. Per tre ore.

Pensavo che il rientro sarebbe stato quasi una passeggiata ma devo ricredermi ancora: ora che ho raggiunto il mio obiettivo il pensiero di passare altri tre giorni così mi pare insostenibile.

In realtà, l’odio al pensiero dei tre giorni che mi aspettano si esaurisce in fretta: c’è quasi un che di rilassante nel camminare sotto la neve. Il panorama è irriconoscibile ed è tutto estremamente silenzioso. L’acqua nel collo della borraccia è congelata e ogni tot cerco di stapparlo facendo leva con legnetti, dita, persino la punta dei bastoncini da trekking. Se metto il tappo, bisogna combattere due ore per svitarlo, quindi ci rinuncio. Cammina, cammina, cammina, cammina.
Cammina.
Attenta, quello è un fiume mezzo gelato, non passarci sopra.
Le ciglia hanno cristalli di ghiaccio e i capelli che sporgono dal berretto sono rigidi e bianchi. La montagna mi sta inglobando nel suo aspetto.
Nove ore col mio passo per arrivare a Pangboche, dove dai cortili gli yak domestici mi guardano, anche loro ricoperti di neve.

La marcia in Siberia
4 gennaio, giorno 9 del trekking

Km percorsi: Pangboche-Khumjung 12 / Khumjung-Namche Bazar 3
Ore di cammino: Pangboche-Khumjung 6 / Khumjung-Namche Bazar 2
Dislivello positivo: Pangboche-Khumjung 630 m / Khumjung-Namche Bazar 70 m
Dislivello negativo: Pangboche-Khumjung 810 m / Khumjung-Namche Bazar 410 m

La neve è ancora intatta e Mani è il primo ad aprire la pista.
Il vento solleva la neve sulla cima dell’Ama Dablam, contornandolo di una luce surreale. Gli alberi sono come tende ai lati del sentiero.
L’odore degli animali che passano trasportando il fieno lascia una scia acre.
Non nevica, ma ricomincerà nel pomeriggio.
Ogni tanto dobbiamo appiattirci contro il fianco della montagna perché il passaggio è bloccato da una mucca.
Nella discesa dopo Tengboche finalmente succede: il primo scivolone! La cosa incredibile è che Mani cade subito dopo di me. E non sarà l’ultima volta!

Quando esce il sole il ghiaccio inizia a cantilenare.
Quella che prima era una discesa, ora è una salita. Mani mi aspetta dieci metri più avanti, comodamente appoggiato ad una roccia.

Lukla caput mundi
5 gennaio, giorno 10 del trekking

Km percorsi: 18
Ore di cammino: 7
Dislivello positivo: 490 m
Dislivello negativo: 1.050 m

La neve sciolta sta creando un vero e proprio pantano in cui fango e cacche varie schizzano in ogni dove. A pranzo Daniele si macchia con dell’olio e si lamenta. In effetti, se non fosse per quell’olio i suoi pantaloni ormai marroni fino al ginocchio sarebbero impeccabili. Questo tratto di strada lo trovo impegnativo, ma siamo agli ultimi sforzi. Smetto di chiedere quanto manca a Lukla perché in realtà non vorrei arrivarci. Cioè, non nel senso che spero di morire lungo il percorso, nel senso che non vorrei che questo viaggio finisse.
Luoghi ormai conosciuti scorrono all’incontrario e il nastro si riavvolge.
Lukla capitale ci accoglie.

Terra chiama Clara
6 gennaio

Come si suol dire: chi va piano va sano e va lontano. Gli escursionisti che si erano affrettati ad arrivare in paese uno o due giorni prima sono rimasti bloccati perché i voli non sono partiti. Io, con la fortuna del principiante, decollo regolarmente e con un cielo perfetto.

Dal piccolo parapetto che dà sulla pista si vedono le montagne nella luce dell’alba, illuminate una fetta dopo l’altra.
In attesa del volo si stringono nuove conoscenze e si raccontano nuove storie, con quelle vecchie invece ci si scambiano strette di mano e complimenti. Come nei rifugi, ma senza stufa.

Seduta sul minuscolo seggiolino dell’aereo non riesco a non piangere mentre la hostess passa distribuendo caramelle e ovatta per le orecchie.
È proprio fatta.
È stato meraviglioso.

La montagna migliora solo chi è portato a migliorarsi; non migliora gli inerti, o gli spavaldi. Certo, le regole spartane aiutano la formazione del carattere: la durezza, la fatica, la sofferenza…ma ci vuole una volontà, diamine!

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