Fragilita Fragilita

ANTIFRAGILITÀ

#SALEWAFACES

1. PROLOGO

Mi chiamano Spit
Questa è una storia diversa: tempi eccezionali richiedono misure eccezionali, del resto. Inizia strana, senza sveglie ad ore antelucane, viaggi in furgone verso località remote, preparazione di materiale per un’avventura in montagna. Non inizia nelle Dolomiti, in Groenlandia, in Nepal: inizia nel mio appartamento di Zurigo, dove sono rinchiuso da ormai cinque settimane.

Mi chiamo Giovanni. Mi chiamano Spit, perché mi piace scalare, mi piace chiodare, e soprattutto perché faccio Spitale, di cognome. Sono italiano, uno fra i tanti che hanno inseguito la scienza in luoghi meno trascurati dell’accademia italiana. Qui in Svizzera studio una cosa complicata: l’etica biomedica, una disciplina che cerca di aiutare le persone a fare la scelta meno sbagliata possibile quando ci si trova di fronte a situazioni complicate: il potenziamento umano, l’ingegneria genetica, l’inizio e la fine della vita, anche le epidemie. Mi piace “la scelta meno sbagliata possibile”, come concetto: andare in montagna ti insegna parecchie cose, e tra queste c’è l’umiltà che impari quando ti confronti con cose molto più grandi di te.

Mi piace raccontare storie
Non sono un atleta. Sono solo uno a cui piace andare in montagna, senza confini di geografia o discipline: mi piace scalare nelle Dolomiti, le mie montagne di casa, quelle tra cui sono cresciuto. Mi piacciono le sere d’estate passate in furgone, sui passi, preparando l’avventura del giorno dopo.

Mi piace l’inverno nelle valli della Svizzera centrale, nel cantone di Svitto, quelle che non conosce nessuno se non gli autoctoni, dove non ci sono impianti sciistici e alberghi fighetti, ma solo un sacco di neve: prendi lo splitboard e via, a guadagnarti la tua linea pagando in sudore e fatica.

Mi piace correre tra i picchi senza nome dell’Anti-Tauro, in Anatolia, un posto dove puoi imparare che le persone sono davvero tutte uguali, nel bene e nel male.

Mi piace il cielo sopra alle Prealpi Venete, il modo in cui fa da cerniera tra il mare e le Alpi, e mi piace volarci in parapendio. Datemi un hike and fly e sono a posto per una settimana.

Mi piace raccontare storie. Ma questa non è una storia di cielo, di roccia o di neve. Questa storia racconta un’altra cosa che conosco molto bene, forse meglio delle montagne e dell’etica.

Questa è una storia di solitudine.

C’è sempre da imparare
Certo, messa così non è molto appetibile la faccenda, me ne rendo conto. Elaboro un po’: questa è la storia di come, nel momento più difficile della mia vita, ho imparato a stare da solo. Non perché volessi farlo, ma perché mi toccava: un momento in cui la solitudine, una solitudine estrema, dolorosa e prolungata, è stata l’unica linea, sottile come un capello, tra vivere e morire. Certo, ora come ora ci siamo dentro tutti quanti senza eccezione. Ma, hey, io gioco con dieci anni di anticipo. La mia storia, la mia lezione, è qualche capitolo più avanti rispetto a quella, simile eppure diversa, che questo virus ci sta imponendo. Spoiler! So cosa c’è dopo.

Nessuna di queste parole è fantasia, è tutto testato sul campo, come nella migliore tradizione. C’è dentro l’astio delle ore interminabili passate a guardare la primavera che arriva da dietro un vetro, e la gioia di prendersela tutta in un fiato, la primavera. C’è il dolore per la distanza dalle persone che amiamo, ed il sollievo dolce di un abbraccio rimandato troppo a lungo. C’è la mia vita, che adesso, purtroppo, è anche la vostra.

Spoiler, di nuovo: ne usciremo. Non solo: ne usciremo più forti.

Fragilita

 

2. RIGA BIANCA

Non solo gli uccelli volano
“Occhio, stai all’occhio, che qua la vedo male…” Muovo il piede su una scaglia che quasi non si vede. Respiro, cercando di svuotare la mente, scacciando la paura. “La paura uccide la mente”, recito dentro di me, “la paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale”. Il Moc, svariati metri più sotto, sembra aver capito, ed è pronto a tenere il volo. È un movimento strano, quello: sei praticamente in croce, con le braccia completamente allargate e le punte degli alluci spalmate sulla caricatura di una tacca. Poi devi alzare il piede sinistro, in cerca di quella scaglia invisibile di cui poc’anzi. È uno di quei momenti che definiscono un prima e un dopo: se ce la fai, è fatta.

Sento la gomma della scarpetta muoversi. Una cosa da nulla, forse cinque millimetri. Sento le dita che saltano, lasciando sulle tacche una discreta quantità della mia pelle. Cinque millimetri, e poi cinque metri di roccia mi scorrono davanti agli occhi.

“Viaggio nel tempo, vez” commenta il mio socio, mentre penzolo poco elegantemente. “Ci hai mai pensato” chiosa sarcastico “a quante ere geologiche hai attraversato nello spazio di un volo?” Rido. Mai andare a scalare con uno che ne sa di scienze naturali, ti rovina tutta la poesia. Mi faccio calare a terra, esausto. Riga Bianca è una via per la quale non ho ancora la forma, oppure la testa.

Come una banana
È mentre tolgo le scarpe che noto qualcosa: sono le mie braccia. Strano, non sono solo ghisate. Sono anche nere. Ho gli avambracci coperti di lividi, dal polso al gomito. Certo, ci ho speso del tempo, su questo tiro maledetto, ma una faccenda del genere non l’avevo mai vista. “Ehi Moc, ‘và che roba!”. Il Moc allunga il collo ed aggrotta le sopracciglia. “Spit, non mi pare una cosa normale” borbotta. “Da quanto tempo non vedi un medico?”

Bella domanda. Non lo vedo da una vita, un medico. Perché dovrei? Ho vent’anni, non sono mai stato male un giorno…

“Ne vedrò uno la settimana prossima, Moc. Ho deciso di diventare donatore di midollo osseo, sai? Non ci vuole molto: ti fanno un esame del sangue, decifrano il tuo HLA, cioè il codice di compatibilità del sistema immunitario, e lo salvano in un database.”

Questione di scelte
Il Moc sembra incuriosito, non so se dalla donazione di midollo osseo o dalla mia reticenza a vedere i medici. “Chiaro, Spit. E poi? Se sei compatibile con qualcuno cosa succede?”

Missione compiuta, spostare l’attenzione del Moc su qualcosa di più interessante non è così difficile, se lo conosci da anni. “Poi, Moc, dipende. Il trapianto di midollo osseo serve a curare malattie ematologiche, tipo la leucemia, il linfoma, il mieloma… La prima cosa è distruggere completamente il midollo ammalato dei pazienti. Poi entra in scena il donatore: se sei compatibile ti prendono un po’ di cellule staminali, o direttamente dal midollo delle ossa del bacino, o addirittura dal sangue periferico. È una puntura, in pratica. Del resto…” Guardo in alto, sulla parete, guardo ai segni che il mio improvvido volo ha lasciato, alle mie dita, alle mie braccia “…se facciamo questo per divertirci, non dovremmo farci spaventare da un prelievo. Specie se serve a salvare la vita a qualcuno”.

Taccio. So che non sono bravo con molte cose, ma usare le parole mi riesce abbastanza bene. Il Moc sembra convinto dalla mia sommaria esposizione. “…certo, Spit. Prima o poi lo faccio anch’io, mi sa. È un modo facile di salvare la vita a qualcuno. Però fatti vedere comunque da un medico, quei lividi che hai sono strani. E adesso, cosa ne dici di berci questa bella birra calda, sballottata nel mio zaino per almeno un mese?”

Una riga bianca
Un mese dopo, solo un mese. Quante cose cambiano in un mese? “‘Fanculo”, borbotto a denti stretti mentre solco a passi nervosi il lungo corridoio dell’ospedale. Passo davanti ad uno specchio e quasi non mi riconosco. Magro, smunto, coperto di lividi come se fossi uscito a bermi una birra con Tyler Durden. E poi c’è la cosa dei nasi. Mi guardo attorno: ci saranno almeno trenta persone, nel corridoio. Medici, infermieri, pazienti… e in tutto il corridoio non si vede un naso. Mi aggiusto la mascherina, infastidito.

Guardo ancora nello specchio. Dietro di me vedo una fila di persone. Smunte, malconce, alcune spelacchiate. Tutte hanno una mascherina bianca. Le mascherine formano una linea tratteggiata, da un lato all’altro del corridoio. Una riga bianca.

 

3. ASPETTARE

Confinàti
Un maggio così non si vedeva da un po’. E per fortuna. Siamo alla fine del mese; in una settimana abbiamo visto pioggia, neve, grandine, temporale, un generoso sprazzo di sole di ben mezz’ora, altra pioggia. Oggi è il 21 maggio, sono 10.030 giorni che mi sveglio alla mattina.

Ho passato gli ultimi confinato in poco più di trenta metri quadri assieme al Moc, che in questo momento è disteso a ronfarsela sulla cassapanca dove io vorrei appoggiare i piedi; siamo senza telefoni ed altri mezzi di comunicazione, e pertanto le nostre interazioni con il mondo umano risultano decisamente decurtate.

È una situazione bizzarra, a parte le sfumature à la Brokeback Mountain ed il fatto che purtroppo siamo entrambi eterosessuali.

Un piano niente male
Sulla carta sembrava una figata: c’è questo amico del Moc che gestisce un rifugio nel Lagorai occidentale, ed è disposto a prestarci le chiavi. La stagione non è ancora iniziata, del resto, ma per noi va più che bene. Potremmo salire per qualche giorno, avendo una base comoda per lunghe camminate ed un po’ di arrampicata, presumibilmente a Cima Trento, sopra il lago di Costa Brunella.

Dopo una scorsa alle mappe e qualche consultazione con Manolo, un’autorità per quanto riguarda queste montagne, carichiamo la macchina con tutto il necessario per la nostra avventura e partiamo. E adesso sono tre giorni che fisso la pioggia cadere, una goccia dopo l’altra.

Non succede niente
Quando hai tempo hai anche spazio: non nel senso fisico, però. Hai spazio per far andare la mente dove meglio credi, o per lasciarla andare dove vuole portarti. La stufa manda uno schiocco, mi alzo per aggiungere una stela di legna e per sgranchirmi la schiena.

Mi avvicino alla finestra: sono le quattro di pomeriggio, ma sembrano le otto, dal buio. Fuori non succede niente. Non si muovono nemmeno gli animali, con questo tempo. Non c’è niente da vedere se non il cadere incessante delle gocce attraverso il velo opaco della condensa sul vetro.

Quanto pesa una goccia
Plic, plic, plic. Non sono più nel Lagorai, e la goccia che fisso non è acqua. Sono di nuovo in ospedale, e quello che vedo gocciolare lentamente dalla flebo alle mie vene è un cocktail di farmaci micidiale. Serve a tenermi vivo, ma gli effetti collaterali ti farebbero venir voglia di desistere. È che, alla fine, la vita è una figata, e se hai vent’anni è troppo presto per rinunciare. Sono solo, dietro ad una parete di vetro. Mi alzo a fatica, il mio corpo rotto come quello di un vecchio. Infilo pantofole e vestaglia, metto la mascherina e ciabatto stancamente fino al corridoio. Non succede niente. Esco, stando attento a non toccare nulla.

Ci vuole fantasia
Questa è la mia ora preferita: la mia malattia ha distrutto il mio sistema immunitario, e quello che non ha fatto l’aplasia midollare idiopatica lo sta facendo la chemio. Questa è la mia ora preferita, perché quando non c’è nessuno in giro posso uscire, sgranchirmi le gambe nel corridoio. Devo fare attenzione, perché ogni persona, ogni cosa che non sia disinfettata, per me è come una bomba. Non è un granché, ma è comunque meglio di starsene a letto aspettando di (non) morire.

Ho una malattia degenerativa del midollo osseo. Prova ad immaginare di avere vent’anni, e ripetiti queste parole, in testa: “ho una malattia degenerativa del midollo osseo”. Figata, eh? Aggiungi quanto segue: ”i medici dicono che ho un’aspettativa di vita di dieci anni, senza un trapianto”.

Bisogna aspettare
Bisogna aspettare, bisogna sempre aspettare. Che arrivi una sacca di sangue per le trasfusioni, perché i donatori sono troppo pochi e i pazienti sono troppi. Che la chemioterapia funzioni, perché la medicina è molto più vicina all’arte che alla scienza. Che si trovi un donatore di midollo osseo compatibile.

Oh, ironia della sorte: io volevo diventare un donatore di midollo osseo, e invece… Certe volte la vita prende delle strade davvero tortuose per insegnarti qualcosa. Ho bisogno di un trapianto, ho bisogno di qualcuno che sia disposto a donare una parte di sé per me. Non è facile, perché le possibilità statistiche di trovarlo sono soltanto una su centomila.

Bisogna aspettare. Testa bassa, denti stretti. Mai stato bravo ad aspettare, io. Ma cosa posso fare? Non c’è alternativa: attesa e disciplina, e tenere la mente in ordine, perché il corpo mi sta già mollando. Che ne rimane, di me?

Abbranco una bottiglia di disinfettante, che in questo reparto è dappertutto, e mi ci strofino le mani. Più per abitudine che per necessità, mica ho toccato nulla, ma sai mai. Le infezioni sono IL nemico, qui.

Dentro è più sicuro
“Allora, Giovanni” un infermiere mi sorprende alle spalle “Sempre in giro? Non riesci proprio a starci, in camera, eh?”

Lo fisso dritto. Anche lui ha la mascherina, il che rende quasi impossibile decifrarne le espressioni. Devi affidarti solo agli occhi, a come si piegano agli angoli. Un bel casino. Decido che voglia fare il simpatico, con quell’ironia che chi fa il suo lavoro nasconde e custodisce con cura, come un vino pregiato da stappare per le occasioni.

“Sai, Christian, stavo pensando di andare a farmi una sciata. Se mi dai una mano a montare le flebo in uno zaino non credo sia più di tanto un problema”. Christian sorride. Credo, insomma, non è che io sia mai stato un drago, con ‘sta cosa delle emozioni lette negli occhi.

“Dai, torna in stanza, che è più sicuro”. Stava sorridendo, sicuro. Mi trascino di nuovo sul letto, con la flebo che, fedele, mi traballa dietro.

Plic, plic, plic. Mi scuoto dalle spalle i fantasmi del passato, mentre torno a fissare la pioggia in Lagorai.

Aspettiamo insieme
Il Moc si è alzato. Ha controllato la stufa, mi ha raggiunto alla finestra per guardare fuori, zitto e svelto come un gatto.

Anche il Moc ne sa qualcosa, di attese: il giorno in cui ha saputo della mia malattia si è immediatamente tipizzato, diventando un potenziale donatore di midollo osseo. Non solo per me: per chiunque nel mondo avesse bisogno di lui. Non è compatibile con me, non può salvarmi la vita, nonostante sia uno dei miei più cari amici e la persona con cui preferisco in assoluto legarmi in cordata. Aspetta di essere chiamato per salvare la vita di qualcun altro: se capitasse sarebbe un po’ come se avesse salvato la mia.

Da qualche giorno la vita ha alzato la posta, in termini di pazienza: gli hanno detto che probabilmente il suo midollo osseo è compatibile con quello di una persona in attesa di trapianto. Adesso non è più solo teoria. È una possibilità vera, lì, dietro l’angolo, basta un altro paio di esami. Una roba da farti tremare al pensiero.

Ci vorranno circa due mesi per sapere se va in porto. Non salverà la vita a me, ma magari salverà quella di qualche altro povero cane a cui la vita ha giocato un tiro buffo: se ti dimentichi di te stesso, che di tanto in tanto è cosa saggia da fare, è una prospettiva niente male.

Qualcosa è cambiato
Come sa chiunque si sia trovato ad attendere qualcosa di assolutamente imprevedibile, focalizzare la propria attenzione sull’obiettivo è la scelta peggiore. Sarà tra un mese? Succederà davvero, prima o poi? Molto meglio tenere la testa impegnata, concentrarsi su altro; poi, quando ciò che si aspetta arriva, basta raccoglierlo con gratitudine e meraviglia. Sono le basi dell’antica arte nota ai più come “ingannare l’attesa”.

Mi giro, perdendo altro tempo a controllare e regolare il tiraggio del fuoco. Considero brevemente se preparare un caffè, giusto per ammazzare il tempo. Per quello, ma anche perché nessun caffè è buono come quello fatto sulla stufa e trangugiato per scaldarsi.

“Spit, guarda fuori”. Non faccio tempo a girarmi che già sento il clic dell’otturatore della macchina fotografica, sorta di protesi permanente del mio amico.

La prima cosa è la luce, la seconda il suono. L’ultima pioggia brilla e tintinna come una cascata di diamanti, sorta di cortina irreale davanti a Costa Brunella. Il cielo del tramonto si apre, una processione nuvole spennacchiate che svaniscono come fantasmi in processione.

Ad ovest non c’è il sole del tramonto: c’è il faro di Alessandria, il carro di Apollo Febo, l’Occhio di Dio. Non ho mai visto una cosa del genere.

Serendipità
“Pensa se fossimo scesi a valle ieri” suggerisce il Moc, mentre studia il prossimo scatto.

Io non rispondo. Sarà la seconda volta che mi capita in vita, di non trovare le parole. Me ne sto muto, assorto come di fronte ad una rivelazione. Penso a quanto tutto questo mi sia mancato nei duri mesi dell’ospedale ed in quelli asfittici della quarantena, subito dopo. Ero vivo, ma ero rotto, ed ancora il mondo mi era consentito solo in monoporzioni sterili.

Mi rendo conto che sto piangendo, ma non importa. Va bene così.

L’attesa è respiro
Siamo qui da giorni, ed ho imparato che tutti quelli che ci rimangono non saranno più giorni d’attesa. Non nel senso convenzionale del termine, per lo meno. Non come spazio vuoto tra un evento ed il successivo, un tempo sospeso da rifuggire, pieni di quell’orrore per il vuoto figlio delle nostre routine schizofreniche.

Qui, da soli, nel pessimo e fantastico tempo del Lagorai, abbiamo imparato che l’attesa è il tempo più importante, quello senza il quale tutta la nostra vita sfumerebbe nel nonsenso: il tempo per l’immaginazione, il desiderio, il giudizio. Il tempo della consapevolezza, ed il tempo per raccogliere (ed accogliere) l’Inatteso. L’attesa è respiro.

Fragilita

 

4. ANTIFRAGILITÀ

Il cielo di Braunwald
La radio esplode in uno scoppio di risate e parole comprensibili solo in parte, mentre mi aggrappo al freno destro e spingo tutto il mio corpo dallo stesso lato, sporgendomi fuori dall’imbrago. Il vario cinguetta frenetico come un merlo in amore, da sotto sale l’odore resinoso dei pini. Il cuore mi palpita all’impazzata mentre cerco al contempo di piantare gli artigli dentro alla termica più inattesa della stagione e di capire cosa mia moglie stia urlando alla radio.

Questo è il cielo di Braunwald.

Braunwald è speciale: per cominciare, in tutto il paese ci sono 308 abitanti e zero macchine. Un precipizio quasi verticale lo separa dal fondovalle e definisce il limite sud-orientale di questa specie di balcone naturale, affacciato sul Clariden, sul Tödi, sull’Hausstock, che da quando vivo oltralpe sono diventate le mie montagne preferite.

Siamo arrivati in treno, perché in Svizzera si riesce ad andare in montagna utilizzando solo il trasporto pubblico. Abbiamo iniziato a camminare presto, mentre il sole iniziava a carezzare le punte regolari del Glärnisch. Si potrebbe anche prendere una cabinovia, volendo, ma a noi la fatica piace. Ci ho messo degli anni a capirlo, ma ormai è un fatto stampato a fuoco nell’anima e nella carne: per aspera sic itur ad astra, le altezze si possono raggiungere solo passando attraverso le difficoltà.

“Guarda i corvi!” gracchia mia moglie alla radio. “Proviamo a spostarci sopra a quel colle, a nord-est”. Buona idea: la colonna d’aria ascendente in cui sono salito come un seme di acero sta lentamente perdendo la sua forza. Spingo sulla speedbar e mi faccio piccolo di fronte al vento per affrontare la transizione con più efficienza possibile.

C’era una promessa
Camminare mi piace perché mi lascia il tempo di pensare. Credo che l’hike and fly, così come lo scialpinismo, o l’arrampicata, siano metafore della vita, o che perlomeno funzionino molto bene per descrivere la mia. C’è chi resta in fondovalle: scelta lecita, ci mancherebbe altro. C’è chi considera le montagne solo come una sorta di cornice, un non-luogo che serve solo a rendere le foto più interessanti. Io ho scelto di salirci, sulle montagne, e di salirci con le mie forze.

Sono nato alla fine degli anni Ottanta, cresciuto in un mondo in cui tutto sembrava garantito, incluse le magnifiche sorti e progressive che ci aspettavano. Poi si è rotta ogni cosa. L’undici settembre, la crisi economica e quella migratoria ci hanno obbligato a guardare la realtà in faccia: quella promessa era falsa, era null’altro che una parentesi di quiete regalataci per caso da un universo che segue altre regole. Non abbiamo ascoltato, o forse abbiamo ascoltato senza capire che la fragilità della vita è una condizione fondamentale, non accidentale.

Un muro invisibile
Colpisco un muro invisibile. La mia vela si chiude. Per un lunghissimo istante mi sento senza peso, prima che con uno schiocco il parapendio torni a volare. Guardo incredulo il vario, secondo il quale ora stiamo salendo a più cinque metri al secondo. Mica male, in dicembre. Chi se lo aspettava? Chiudo la mia traiettoria in una serie di curve, regolandole un po’ alla volta per beccare il cuore di questa termica. Tempo qualche secondo e ci sono, centrato come una freccetta ben lanciata.

Mi guardo attorno, in cerca di mia moglie. Sta entrando ora. Sale più veloce di me, con il suo demonico senso per l’aria, la sua capacità di vedere anche cose invisibili. Merda, è il caso che mi muova, oppure dovrò uscire per lasciarla passare. Stringo ancora, cercando di usare lo spostamento del peso quanto meglio posso.

Nulla è scontato
Cammino veloce, un passo dopo l’altro, affondando nella neve fino alle ginocchia. Respiro, felice di essere vivo. In un certo senso sono stato fortunato: quando il mondo guardava incredulo a quel patto spezzato, cercando di infilare la testa nella sabbia per non vederlo, per non soffrire, la vita mi ha chiamato alla prova più dura. L’aplasia midollare idiopatica mi ha tolto le mie montagne, il profumo dei fiori, il contatto con le persone.

Per mesi sono stato sospeso tra la vita e la morte in un limbo asettico di disinfettanti, mascherine, farmaci dagli indicibili effetti collaterali; e per anni ho continuato a chiedermi se sarei riuscito ad arrivare ai trenta. Mentre il mondo cercava di non vedere la fragilità della condizione umana, l’impermanenza di tutto ciò che amiamo, io da quella fragilità sono stato abbracciato senza possibilità di fuga.

Ecco perché mi piace così tanto camminare per guadagnarmi il volo, le curve sulla neve, o anche solo il panorama: l’ho fatto per dieci anni per riprendermi le cose normali, quelle scontate (che, sorpresa, non sono scontate affatto), le cose piccole che rendono una vita degna di essere vissuta.

È la solitudine che mi ha insegnato il valore di un aperitivo con gli amici. È la debolezza estrema che mi ha insegnato la gioia di arrivare in sosta dopo un tiro duro.

A nord
Giro ormai da qualche minuto. Sono riuscito a mantenere la distanza da mia moglie, che è ancora un po’ più in basso. Alla mia destra c’è la punta del Bös Fulen. Ne seguo la cresta con lo sguardo, scoprendovi un piccolo bivacco. Bene: prendo mentalmente appunti sulla posizione, sulla conformazione della parete, su come raggiungerlo. Potrebbe essere una gran gita, questa primavera.

La termica sta perdendo forza, ed il cielo si sta velando. Improbabile trovarne un’altra: è ora di mettere a frutto tutta questa quota. Chissà dove posso arrivare, planando a nord. Un ultimo giro, ancora uno, e poi via. Acchiappo la radio: “Ehi Angela” dico. “Non credo di atterrare vicino alla stazione. Vado a nord. Ci aggiorniamo”. Mia moglie risponde con due click, ricevuto. Le mani le servono sui freni, ora.

Antifragilità
Può sembrare un paradosso, ma la chiave è proprio quella: per non spezzarsi bisogna abbracciare la fragilità come condizione fondamentale dell’esistenza umana. è così che si diventa antifragili. Cosa vuol dire? Beh, Nassim Nicholas Taleb, matematico ed epistemologo ci ha scritto un libro, per quelli curiosi. Ci sono modi diversi di resistere alle crisi, siano esse finanziarie, mediche, esistenziali. Un sistema rigido collassa, perché ciascuno dei suoi mattoni è fondamentale. Un sistema resiliente rimbalza, tornando alla fine della crisi esattamente al punto di partenza. Un sistema antifragile invece cresce: utilizza la crisi come una lezione, dotandosi di strumenti migliori per resistere a quelle che seguiranno. È per questo che nei posti ventosi gli alberi hanno radici più profonde.

Ci sono due domande. La prima: come si fa ad imparare qualcosa, quando tutti i tuoi sensi sono riempiti da dolore ed angoscia? Ci vuole lucidità, per imparare. La seconda: qual è la lezione? Cos’è che dobbiamo imparare?

Sebbene abbia passato una parte della mia vita ad insegnare storia e filosofia, non credo nelle lezioni e in chi ex cathedra le impartisce.

Credo invece nelle domande e nella loro forza, nella capacità di segnarci non tanto la destinazione, quanto invece la strada. Cosa c’è dopo la prossima curva? Le domande, non le risposte, sono il vero motore dell’umanità. Ma so una cosa: troverò un posto in cui atterrare. Magari lì, di fianco a quella chiesa, un bel campo non lontano dalla ferrovia e dalla stazione. Ecco, sì, questo è un piano.

So che troveremo tutti un posto sicuro in cui atterrare, dopo questo lungo e difficile volo. Lo so perché conosco la natura umana, almeno un pochino. Dobbiamo solo imparare ad aver cura. Di noi stessi, di chi ci sta attorno, e di tutto il bello che il mondo ha ancora da offrirci. Non c’è nulla di scontato, e tutto ha un prezzo. Non in denaro: sarebbe troppo facile. Pagarlo ci lascerà più rotti, ma anche più consapevoli del valore delle cose “normali”.

“Terra!” bisbiglio alla radio. “Fa buon volo, ci vediamo in treno”.

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