Alaska

Alaska


Dall’hangar in fondo alla striminzita pista d’atterraggio spunta un giovane uomo, i capelli arruffati, mani e pantaloni neri di olio da motore. Lo sguardo aperto e rilassato, ha l’aria di una persona che ha appena finito di fare qualcosa che ama. “Allora Paul”, lo apostrofa allegro, “Hai finito per oggi? Bentornato a casa! Andiamo, mia moglie ha preparato una bella cenetta”. Paul armeggia per tirare giù un grosso zaino dal piccolo Super Cub. “Ho finito, ma solo per oggi, Ken. Non ho molto tempo e domani volevo spingermi più a nord, dietro il Denali. Starò via 3 o 4 giorni, credo. Andiamo a mangiare adesso; sono stanchissimo e affamato”. Paul Guschlbauer e Ken MacDonald s’incamminano verso casa, parlando di quello che c’è dietro quelle montagne, mentre l’ultima luce del sole si spegne nel cielo dell’Alaska. Sono passati quattro mesi da quando questo eccentrico austriaco è arrivato da Anchorage con due soli paraglider, un sacco a pelo, un paio di sci e pochi abiti e ora vive sul suo aereo e nell’hangar di Ken. Ha imparato ad atterrare e decollare nei luoghi e nelle condizioni più improbabili, a riparare da solo l’aereo e a volare sopra l’entroterra dell’Alaska. I due si sono conosciuti in un modo insolito: Paul, che è innanzitutto un pilota di parapendio, cercava qualcosa che attirasse la sua attenzione dopo la Red Bull X-Alps, un progetto esplorativo. Dopo pochi scambi di e-mail e ancor meno telefonate ha infine trovato Ken, uno dei migliori piloti di bush flying in quest’angolo di mondo o, meglio, di tutto il mondo. Il piano era semplice: il primo obiettivo era ottenere un brevetto di volo americano: facile, basta riconvertire quello europeo. Il secondo era trovare l’aereo giusto: impresa decisamente più difficile, ma non impossibile. Infine, raggiungere posti nuovi in aereo e poi volare in parapendio: luoghi lontanissimi, remoti, che richiedono due settimane di cammino. Nelle terre selvagge, ma senza mangiare la polvere in un vecchio autobus abbandonato. A Ken il progetto è sembrato così entusiasmante da aiutare Paul ad acquistare un vecchio Super Cub, insegnargli a ripararlo e mettere a sua disposizione il proprio sapere e un posto in cui dormire. È mattino presto, ben prima dell’alba, quando Paul si sveglia. La cena è stata fantastica e sente già nostalgia di quel senso di famiglia che si è creato con Ken, sua moglie e i loro figli. Nel silenzio che cala giusto poco prima del sorgere del sole, carica ordinatamente l’aereo con le provviste e le cose di cui avrà bisogno nei prossimi giorni: gli attrezzi per il parapendio, gli sci, una piccola tenda, del cibo. Controlla il livello del carburante e lo rabbocca.

Proprio poco prima di accendere il motore e decollare verso questa nuova avventura, ecco che arriva Ken, ancora un po’ assonnato. L’americano bussa piano sulla fusoliera, accarezzandola. “Abbiamo fatto davvero un bel lavoro con questo rottame del '59, non credi? Fa proprio una gran figura adesso”. Paul esce dalla cabina, scende e annuisce. “Beh, tu hai fatto un bel lavoro, io ho solo fatto da assistente. Ken, non so proprio come ringraziarti. Sei una persona e un amico eccezionale”. Ken si schernisce, ridacchia e mormora qualcosa, non gli piace ricevere complimenti. “Ascolta”, gli dice Paul, “Perché non vieni anche tu? Ne è passato di tempo dall’ultima volta che abbiamo volato insieme”. Ken sfiora le lucide lame sui rotori del Super Cub, assorto nei suoi pensieri. “Ma certo che voglio venire. Volare con te, insegnarti a sorvolare l’Alaska è stato fantastico. Quando mostri a qualcuno il posto in cui vivi, hai la possibilità di vederlo con occhi nuovi. Io posso averti insegnato qualche trucco da pilota di bush, ma tu mi hai ricordato perché amo tanto questo stupido ghiaccio!” Con una smorfia, Ken conclude. “E oggi devo andare ad Anchorage per la spesa del mese e ci dovrò andare in macchina”. Paul e Ken ridono con aria complice. Dopo grandi pacche sulle spalle e arrivederci, Paul sale in cabina, pronto a decollare. Ken cammina speditamente verso casa.

Paul tira giù il finestrino. “Ehi Ken!” Lo scarmigliato alascano si gira e guarda l’austriaco. Potrebbe essere la luce dell’aurora, ma vede qualcosa di più di un semplice pilota, ben più di un avventuriero. Vede un uomo che non ha paura di battere nuove strade, inseguire un sogno, capire lo spirito autentico dell’Alaska, oltre la retorica dell’ultima frontiera. Vede qualcuno che vola per volare, per cui l’aria non è solo quello che attraversano ali o vele. Qualcuno per cui gli infiniti chilometri di tundra, laghi e monti non sono soltanto distanze da sorvolare ma spazi in cui esprimere se stessi. Potrebbe essere la luce dell’aurora, ma Ken è quasi commosso al pensiero. “Ken, volevo dirti… no, lascia stare. Grazie, sei un grande, ci rivediamo tra quattro giorni. E compra della birra!” Ken alza il pollice. Paul accende il motore, decollando con elegante precisione dalla stretta striscia che ora chiama aerodromo. Prende quota, mentre l’intensa luce del mattino comincia ad accarezzare la Follia di Seward. Quattro ore più tardi l’aereo è parcheggiato ai bordi di una valle senza nome, da qualche parte a est di Peters Dome. Paul corre veloce; dietro di lui il paraglider si gonfia e i piedi perdono contatto con il terreno sottostante. Tutto intorno a lui si stende un’infinita distesa di posti nuovi e incredibili e non c’è traccia di persone, case, sentieri. “Volare per volare”, ride felice, sistemandosi sul sellino. “Sì, è proprio così che ci si sente quando i sogni si avverano”.